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Recensione di: The Killer Inside Me

18/11/2010 | Recensioni |
Recensione di: The Killer Inside Me

Nell’immaginario collettivo i “cattivi” hanno da sempre creato un certo tipo di fascinazione, e delle volte persino un certo grado di ammirazione. Questo aspetto dell’animo umano normalmente è considerato perverso e assolutamente negativo, ma è inutile negarlo: il male è una bestia persuasiva che si insinua nei meandri delle nostre fantasie. Ecco perché quando assisti (sullo schermo sia ben chiaro!) alle vicende di un assassino sadico, che con astuzia e in preda al suo delirio irrefrenabile, sancisce la vittoria di un comportamento sconsiderato (è un eufemismo ovviamente!), non possiamo fare a meno di essere nella confusione di decidere se simpatizzare o meno per lui. E’ questo il caso di “The killer inside me”, film il cui protagonista è Lou Ford, personaggio complesso e psicopatico che ci riporta nell’America “ruralmente” texana degli anni ’50, uscito dalla mirabile penna dello scrittore esperto in polizieschi pulp/noir Jim Thompson, del quale va ricordato il suo importante contributo come sceneggiatore a Hollywood al fianco di Stanley Kubrick in “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”. “E’ forse la più agghiacciante e verosimile storia di una perversa mente criminale, raccontata in prima persona, che mi sia mai capitato di leggere”, diceva del romanzo Kubrick, ed il film, diretto da un eclettico e attento regista come Michael Winterbottom (“The road to Guantanamo”, 2006), mantiene sostanzialmente l’impianto narrativo del libro, dove primeggia, senza sosta nelle inquadrature, la figura del protagonista, costantemente rimarcata dalla sua voce fuori campo che fa da paradossale contraltare ai suoi crimini. Il killer non cerca una discolpa, ma nello stesso tempo rende plausibile l’efferatezza dei suoi gesti. E’ lo stesso Lou ad insinuare in noi il dubbio che, fondamentalmente, la sua sia una scelta obbligata, il suo essere così abilmente subdolo ci porta a ragionare esattamente come lui. Il pregio del film sta proprio nella capacità di creare empatia, grazie ad una cura delle inquadrature che indugiano sempiternamente sul volto “rilassato” del protagonista.


Serena Guidoni

 


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